7 Febbraio 2021

Bullismo. “Il peso della solitudine”, il racconto di una giovane studentessa

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Giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo. «Il peso della solitudine», è il racconto di Milena Dobellini, giovane studentessa di Lettere Moderne

Oggi è la Giornata Nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo. Per l’occasione vogliamo proporvi «Il peso della solitudine», un racconto di Milena Dobellini, giovane studentessa di Lettere Moderne presso l’Università di Napoli Federico II. 

Il peso della solitudine

«Molti vivono secondo le attese. Hanno un inizio, una continuazione, una fine. Hanno un posto sociale, un posto in generale, sanno cosa succede e quanto è loro dovuto. Esiste però anche un altro genere di destino che capita a chi ha tutto questo, ma è colpito da un’inattesa ventata trasversale. Scaraventato per caso fuori dal suo territorio, finisce per vivere orizzontalmente». – I bambini beneducati, Gaia De Beaumont.

Il bullismo secondo il dizionario della lingua italiana è un atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, con riferimento a violenze fisiche e psicologiche attuate specialmente in ambienti scolastici o giovanili.

Ma come può una parola o una definizione contenere e racchiudere il peso del sentirsi costantemente sbagliati, non considerati, non all’altezza di costruire un rapporto durante quelli che vengono definiti “i migliori anni” della vita?

Carolina ricorda i primi mesi della sua adolescenza a scuola, gli inviti ai  compleanni fatti a bassa voce, affinchè lei non sentisse, perché alle feste di quelli che contavano lei proprio non poteva esserci. Cosa le mancava? Forse la voglia di truccarsi per rendere il suo viso più bello? O forse erano i suoi movimenti mai troppo fluidi a bloccare la comunicazione con chi avrebbe voluto fossero i suoi amici? Era forse la sua lentezza? Glielo dicevano tutti, maestre comprese, si impegna, ha una volontà molto forte che le fa raggiungere ottimi risultati, è molto sensibile ma è lenta. Cosa poteva farci se il suo cervello si rifiutava di imparare a seguire un tempo che fosse uguale per tutti? Quell’orologio, maledetto, non riusciva proprio a leggerlo. Le parole erano sue amiche, i libri, quelli da leggere, sì che erano nel suo tempo, nel suo spazio, nel suo cuore. Li divorava. Perché non interessavano a nessuno?

Forse erano i suoi occhi a renderla sbagliata, guardavano sempre nella direzione opposta a quella che avrebbe voluto vedere. Eppure aveva messo bende, occhiali e colliri per addomesticarli, ma non c’era nulla da fare. Era l’unica parte del suo corpo pronta sempre a ribellarsi al momento meno opportuno. “Quattr’occhi” la chiamavano oppure “occhi storti”. Eppure un nome ce l’aveva. Perché il suo oculista l’ aveva convinta che lo strabismo fosse un pregio? Sei come la Venere di Botticelli, le diceva.

Peccato che aveva imparato fin troppo presto a non credergli più. Pregi non ne aveva, perché se avesse avuto pregi, qualcuna sarebbe stata sua amica. E invece amiche non ne aveva. Ascoltava le loro risatine di scherno, mai troppo forti da contagiarla, né troppo deboli da non sentirle, sempre abbastanza forti da avere la capacità di ferirla. Le arrivavano piccole palline di carta dietro la testa, e subito la derisione partiva. Peccato che facesse ridere tutti, tranne lei. Era sola. Sola contro il mondo. E sola con la sua famiglia. Come poteva dire ai suoi amorevoli genitori che avevano generato una figlia sbagliata, che aveva sicuramente una colpa per non essere voluta bene, ma nemmeno sapeva definire quale fosse?

E come dimenticare quella volta in cui, per farla cadere le è stato messo un ombrello davanti ai piedi e la botta è stata talmente forte che il dolore non si è limitato a solidificarsi dentro, ma si è espresso attraverso il fluido del sangue dal naso? A me esce spesso il sangue dal naso, si giustificò con le professoresse, so come bloccarlo. E infatti lo bloccò subito. L’unica cosa che non sapeva era come rendersi amabile o quanto meno accettabile. Non sapeva come bloccare quell’emorragia del male ricevuto senza sapere nemmeno quale fosse il fattore scatenante, avrebbe dovuto dirle.

La casa era il suo rifugio e la sua trappola, il solo luogo dove essere se stessa non era un errore da contestare, ma un diritto e un dovere. Ma era anche il luogo dove doveva tutelare chi la amava, e  quindi quello dove ingoiare tutte le lacrime.

Quanto dolore soffocato e quanta incapacità di difendersi.

Ma quello non era il periodo peggiore, il periodo peggiore è cominciato dopo. Perché finchè l’hanno derisa vuol dire che esisteva. Vuol dire anche che era una cosa di poco conto, ma almeno la consideravano, almeno esisteva, almeno non era invisibile. Ma quando nessuno più ha fatto lo sforzo di considerarla, quando più nessuno ha voluto lei come compagna di banco, Carolina ha dovuto accontentarsi degli scarti, di ciò che resta. Del non scelto, del non voluto. Come lei. Ma anche il non voluto può scegliere. E non sapeva per quale assurdo motivo sceglievano sempre di scappare via da lei.

Sola. Come una singola goccia d’acqua quando è necessario spegnere un incendio. Sola. Come un uccello preda della caccia. Sola. Come un ragno che tenta, invano, di proteggere la sua ragnatela. Sola, come chi fradicia e con i denti che le sbattono in bocca dal freddo, spera di sopravvivere al temporale. Sola. Sola e incapace. Sola e incompresa.

Incapace come chi prende, secondo la sua classe, un buon voto solo perchè è la preferita della prof. Incapace come chi nemmeno riesce più a dormire. Perché il pensiero di non aver costruito nessun rapporto, il pensiero che se fosse morta l’indomani a nessuno sarebbe mancata la logorava. E non c’era sonnifero che potesse lenire questa certezza.

Il dolore incamerato negli anni ad un tratto è venuto fuori, attraverso svenimenti improvvisi, nel bel mezzo di una risata, di un’interrogazione, di un intervallo, di una corsa durante l’ora di educazione fisica o di un raro ed eccitante momento di passeggera spensieratezza.

Uno show perfetto per chi aspetta soltanto di deridere per ferire. Rinvenire, risvegliarsi in quella ironia feroce e violenta era così traumatico e doloroso.

Ma chi subisce sa quanto sia doloroso essere ferito, perciò rinuncia a ferire, anche a costo di morire per quella ferita ricevuta. Carolina possedeva quell’ostinazione di non smettere di fidarsi, nonostante tutto.

E quella sera in cui si era perfino truccata, anche se odiava farlo, perché sarebbe potuta essere la sera della svolta. E invece ancora una volta pur essendo passati fuori casa sua non l’avevano chiamata. E tutto il trucco si era sciolto insieme alle sue fragilissime speranze. Non era importante per nessuno ma tutti erano importanti per lei. Perché?

Non troverà mai una risposta adeguata. Forse una risposta non c’è.

Ma probabilmente non smetterà mai di essere soffocata da quel maledetto complesso di inferiorità che le dice di non essere all’altezza, di non poter combinare nulla di buono, di essere lenta, di essere sbagliata, di essere malata di solitudine e inamicizia, un attimo prima di una scelta importante.

Oggi Carolina ha perdonato tutti. Riesce persino a sorridere loro quando li incontra per strada senza più abbassare la testa. Li ha perdonati perché ha sempre creduto che la difesa migliore fosse l’ascolto. Ha provato a riavvolgere il nastro del passato, e ha capito che brancoliamo tutti in un vicolo cieco, cerchiamo solo di aggrapparci tutti a quei miseri gesti che ci fanno sentire felici. Ma a volte scambiamo il potere con la felicità. E non esiste nulla di più distante dalla felicità del potere.

Si sentivano forti perché tenevano in pugno le sue fragilità, ma erano fragili perché per sentirsi forti avevano bisogno di tenerla in pugno.

Ha perdonato loro, ma non sa se riuscirà mai a perdonare se stessa. Per essersi convinta che la sua lentezza fosse un difetto imperdonabile e non un modo alternativo di vedere e rispettare le cose. Per essersi convinta che la sua distrazione fosse sintomo di stupidità e non un’attenzione verso qualcosa che loro nemmeno consideravano.

Non sa se riuscirà mai a fingere, a non denudarsi davanti alla vita, a truccarsi, a rinunciare ad un briciolo della sua instancabile verità.

Non sa se riuscirà mai a fare un passo senza prima perdere l’equilibrio. Vorrebbe tanto perdere la sua andatura incerta e traballante e capire cosa si prova a procedere con sicurezza. Lo vorrebbe tanto, ma ama anche tanto la vertigine che le prende quando perde l’equilibrio, ad ogni nuovo risveglio, ad ogni nuovo giorno, ad ogni nuovo passo. Non sa se saprebbe rinunciarci.

Ogni danno è sempre metà dono. Ora lo sa. Per ogni lacrima versata sorride sempre il doppio, ad ogni schiaffo preso risponde sempre con due carezze. Perché chi è violento, con il corpo, con il silenzio o con le parole ha bisogno solo di una quantità di bene molto superiore al male che infligge.

La cattiveria non esiste. Esiste solo la paura. Ma la paura, se gestita male,  fa male ed è male. Perciò bisognerebbe preservare e difendere il diritto ad essere semplicemente come si è. Non giusti, non sbagliati. Non buoni, né cattivi. Solo umani.

Ogni danno è sempre metà dono. E ogni dono è sempre un seme piantato. Non importa se germoglierà o si perderà nel buio del sottosuolo. L’importante è piantarlo. Dove la terra sembra sterile, è proprio lì che è più feconda.

 

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