Massimo Giannini in terapia intensiva: “le cose non stanno andando come dovrebbero”
Il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, racconta nell’editoriale di oggi la sua esperienza in terapia intensiva: “la guerra si combatte nei letti di ospedale, non nei talk show“
“Ci siamo dimenticati di tutto: le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio, i murales con la dottoressa che tiene in braccio l’Italia ammalata, l’inno dai balconi“. Sono queste le parole lapidarie con cui il direttore de La Stampa Massimo Giannini, nell’editoriale odierno del quotidiano torinese, sintetizza il momento attuale. E lo fa da una prospettiva “privilegiata” in senso giornalistico – come egli stesso afferma -, quella della terapia intensiva del Policlinico Gemelli di Roma, dove egli stesso ha trascorso gli ultimi 5 giorni. E da dove racconta una realtà che, pare, gli italiani (a tutti i livelli) fatichino a metabolizzare.
“Quando sono entrato in questa terapia intensiva – scrive Giannini –, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo“. Ma ancora una volta, così come durante la scorsa primavera, la partita dell’opinione pubblica sembra giocarsi sulle colpe da attribuire, in uno scaricabarile dal sapore tutto italiano.
Giannini: “mancano posti letto e ventilatori. Cosa non ha funzionato?“
Ma la domanda da porsi dovrebbe essere: cosa andava fatto e cosa non ha funzionato? “Dopo il disastro di marzo-aprile – scrive il direttore – dovevamo fare 3.443 nuovi posti letto di terapia intensiva e 4.200 di sub-intensiva, ma ne abbiamo fatti solo 1.300: di chi è la colpa? Mancano all’appello 1.600 ventilatori polmonari, dice il ministro Boccia: di chi è la colpa? Dovevamo assumere 81 mila tra medici infermieri e operatori sanitari, ma al 9 ottobre ne risultano 33.857, tutti contratti a termine: di chi è la colpa?“.
Ad una lettura attenta e dopo una razionalizzazione del momento attuale, nell’ottica di una necessaria operazione verità, ne dovremmo concludere che, forse, sarebbero questi i numeri da dare ai cittadini. Non il numero di nuovi positivi giornalieri (aleatorio perché dipendente da una moltitudine di fattori). Perché sono quelli che offrono la dimensione della situazione reale e la fotografia dei risultati dell’azione governativa per fronteggiare l’emergenza. E perché, almeno in parte, aiutano a rispondere alla domanda di cui sopra.
Che fine hanno fatto “gli eroi”?
Durante la prima fase, tutti (o quasi) ci siamo stretti intorno al nostro personale sanitario. Medici di corsia, infermieri, anestesisti, rianimatori, volontari, ci siamo spesi in lodi e plausi. Lo abbiamo fatto noi cittadini e lo hanno fatto i media. E lo hanno fatto anche i cosiddetti decision makers, ministri, politici di maggioranza e di opposizione. Tutti hanno sottolineato il loro apporto fondamentale, decisivo per le nostre sorti. Ebbene?
Ebbene, il racconto degli eroi è svilente: “ci danno cinque mascherine chirurgiche a settimana. Noi siamo qui in trincea, ogni giorno, in questi mesi ci hanno dato l’una tantum Covid da 500 euro lordi e cari saluti“. E il supporto domiciliare? La cosiddetta “rete territoriale”? “I nostri colleghi sul territorio (i medici di base, nda) chi li ha visti?“. Eroi abbandonati alla propria missione. Tanti “Batman” i cui “Robin” hanno preferito l’esonero.
E, dunque, ci siamo dimenticati di tutto. Delle vittime e degli eroi. Dei canti e del sentimento comunitario. La situazione sanitaria degenera, e, nel mentre, gozzovigliamo in un fango di negazionisti, politici-medici e medici-politici che si scontrano nei talk. Chiosa Giannini: “L’ho scritto da sano e lo ripeto da malato: le cose non stanno andando come avrebbero dovuto. Ripetiamo gli errori già fatti“. E forse è tutto qui.
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