L’Immortale, un tuffo nel passato. La recensione
Dalla regia di Marco D’amore, oggi nelle sale è uscito L’immortale – Il film. Un tuffo nel passato di Ciro di Marzio, ecco la recensione
Ciro non è morto, e questo era chiaro fin dall’uscita del primo trailer. « L’immortale nun o accir nisciun », è questa la frase che rimbomba nella testa dello spettatore ed è sottolineata spesso in tutta la serie. Un film che fa da ponte tra la terza e la quinta stagione, un ritorno quasi miracoloso, dopo una morte sofferta e sacrificata. Gennaro non voleva uccidere Ciro e lui per il suo bene ha preferito morire da solo, piuttosto che far morire anche l’amico.
Lui non aveva più niente da perdere oramai, dopo aver passato la vita intera a macchiarsi di sangue le mani. Si è fatto strada nel suo mondo da solo, ha creato il suo impero con la sua scaltrezza e la sua intelligenza. Il film analizza la prospettiva di un bambino salvato per miracolo, catapultato in un contesto duro per la Napoli degli anni ’80. La malavita, quella a cui decide di accostarsi Ciro da bambino, un po’ per indole, un po’ per imitazione degli altri bambini come lui, comporta il “mors tua, vita mea“. Per un ragazzino che non ha una famiglia, un piatto caldo e un tetto sulla testa, questa è la strada più facile quando non si hanno alternative.
Il rimpianto e la rassegnazione
Dagli occhi di un Ciro ormai adulto si percepiscono rassegnazione e rimpianto, soprattutto quando si volta indietro a guardare al suo passato, verso la vita a cui è stato condannato, o forse, destinato da sempre. Si osserva in lui un contrasto tra odio e riconoscenza nel rivedere l’uomo che lo ha cresciuto da piccolo e che lui vedeva come una figura paterna. A causa di quell’uomo, però, ha avuto anche tutto da perdere. Egli gli ha insegnato la malavita, e nel suo accostarsi a lui silenziosamente, è come se lo incolpasse di tutte le pessime decisioni che ha preso nella vita. Ogni silenzio è un puntare il dito contro: la perdita della moglie, la morte della figlia, tutto il sangue da lui versato.
Un Marco D’amore fenomenale, che nelle sue poche battute riesce a far passeggiare lo spettatore all’interno del pensiero del temutissimo Ciro di Marzio, lo mette a nudo delle sue sensibilità e dell’amore che in fondo al suo cuore è ancora nascosto. È uno sguardo penetrante, i suoi silenzi sono dolorosi.
« Nella vita c’è sempre la possibilità di scegliere, il difficile dopo è tornare indietro » – queste parole racchiudono tutta la rassegnazione di un uomo che è uomo nell’accezione più totale del termine. Non importa quanto quell’uomo sia diventato potente grazie alla sua scaltrezza e la sua furbizia. Non importa quale sia stata la sua ascesa sociale, che ha fatto in modo che la sua parola valesse più di tutte le altre. Lui soffre, lui vorrebbe morire, ma neanche questa volta può scegliere.
Lo stato di non-vitalità del protagonista, espresso grazie ai suoi occhi
Più che in uno stato di “immortalità” – come è definito dal suo soprannome – Ciro si trova in uno stato di “non-vitalità”. Lui non vive, bensì sopravvive e non desidera più nulla. In questa mancanza di desideri, si contestualizzano i suoi silenzi.
Questa vita gli è capitata, non l’ha scelto da principio. Quando da piccolo si è trovato sull’orlo della decisione, ha preferito perseguire la strada più facile per lui. Non aveva abbastanza forza e coraggio per dire di no, per questo lui parla di scelta e si definisce anche poco coraggioso. Una scelta apparentemente più facile, ma che comporta numerosi rischi. Una scelta in cui ti ci ritrovi, e nel momento in cui ci sei dentro non puoi più tornare indietro. Sei in un punto di non ritorno.
Ormai era troppo tardi: sua moglie era morta, sua figlia anche. La morte per lui sarebbe stata una liberazione, ma come tutti gli uomini che decidono di intraprendere questo tipo di strada, Ciro è destinato alla dannazione eterna. « Non possiamo permetterci di avere una famiglia, noi gente così ».
Gli è stata data la possibilità di vivere una nuova vita, di scegliere una nuova strada da intraprendere, ma lui ha deciso di perseguire ciò che gli riusciva meglio al mondo: agire da uomo libero, senza alcun padrone.
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