13 Gennaio 2022

Fincantieri risarcimento: un milione alla famiglia di un operaio

Il giudice del lavoro ha condannato Fincantieri per la morte di un operaio. La famiglia riceverà un milione di euro di risarcimento

Fincantieri dovrà risarcire la famiglia di un operaio per un importo pari a un milione di euro, come riportato dalla testata Repubblica Napoli.

L’uomo, defunto cinque anni fa, inalava nello stabilimento di Castellammare di Stabia una gran quantità di amianto, sostanza nociva per la salute.

Per vario tempo l’amianto era stato utilizzato nella costruzione di navi e carrozze ferroviarie, come isolante, fino a quando non si è avuta l’evidenza scientifica che si trattasse di una sostanza killer.

Angelo T., questo è il nome della vittima, aveva il compito di pitturare delle parti della nave e dopo 32 anni di lavoro si è ammalato.

Al risarcimento alla famiglia della persona scomparsa dovrà provvedere Fincantieri, ma anche la Sait, l’impresa per la quale l’uomo lavorava, a cui la società di Trieste affidava delle commesse.

I magistrati del lavoro del Tribunale di Torre Annunziata hanno condannato quindi Fincantieri S.p.A. e Sait S.p.A al risarcimento di un milione di euro, per la morte di Angelo T. a causa di un mesotelioma da esposizione alle fibre di amianto il 5 marzo 2016.

L’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA) ha commentato:

Si tratta di una sentenza storica per i lavoratori che sono stati negli anni a contatto con la fibra killer nella cantieristica navale.

L’INPS in un primo momento aveva riconosciuto soltanto 30 mila euro a titolo di rendita indennitaria, il giudice Dionigio Verasani, invece, ha condannato al risarcimento entrambe le aziende per le quali ha lavorato l’ex dipendente, che ha ritenuto responsabili in solido per il decesso dell’uomo.

Angelo T. ha lavorato tra il 1963 al 1995 per un’azienda, la Sait, alla quale la Fincantieri si rivolgeva spesso per impegnarne gli operai. L’uomo ha svolto mansioni di manovale fino al 1966, pittore per due anni e poi coibentatore, sempre a contatto diretto con le polveri di amianto.

Durante il processo è stato dimostrato, anche grazie a numerose testimonianze di altri operai che lo hanno affiancato negli anni, che il lavoro veniva svolto sempre senza strumenti di prevenzione tecnica e protezione individuale.

L’ambiente di lavoro era al chiuso, all’interno dell’unità navale, e privo di aspiratori localizzati delle polveri e senza ricambio di aria. Locali chiusi, come la sala macchine, presso i quali trascorreva l’intera giornata lavorativa, gomito a gomito anche con altri colleghi. Le attività che svolgeva determinavano aerodispersione di polveri e fibre di amianto, che rimanevano liberate nell’aria.

 

 

 

 

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